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la verità in Blondel

o la non-possedibilità del vero (1)

abstractBlondel offre una prospettiva gnoseologica complementare al tomismo: se quest'ultimo sottolinea troppo la forza del concetto, Blondel da parte sua la relativizza un po' troppo. Tra le due prospettive occorre quindi cercare una sintesi.Blondel offers a gnoseological perspective complementary to tomism: if the latter excessively underlines the strength of the concept, Blondel instead underestimates it. Between the two perspectives it is therefore necessary to seek a synthesis.

Pubblicato in Divus Thomas, n. 26, maggio-agosto 2000, pp. 110/132.

In questo articolo esaminiamo alcuni capisaldi della concezione blondeliana della verità, che ci si presenta come uno dei più interessanti tentativi contemporanei di ripensare il tema gnoseologico integrando la prospettiva tomista proprio in alcuni dei suoi limiti da noi indicati in un precedente articolo[1].

Alla radice: l'aspirazione alla totalità

In estrema sintesi possiamo dire che l'impostazione gnoseologica blondeliana opera, rispetto al tomismo, una certa relativizzazione del concetto, di cui viena sottolineata l'insufficienza a cogliere in modo stabile gli aspetti intelligibili della realtà. è possibile, ed è stato fatto da diversi suoi interpreti, leggere tale relativizzazione del concetto in senso modernistico, dunque nel senso di una radicale incompatibilità col tomismo e di una scelta di campo per la (moderna) sfiducia nella possibilità per la mente umana di attingere il vero. Si dovrebbe allora definire quella di Blondel una gnoseologia relativistica.

Se tuttavia si leggono con un minimo di simpatia intellettuale i testi di Blondel, si può cogliere il presupposto primo di tutto il discorso blondeliano in una aspirazione alla totalità, in cui soltanto può riposare il cuore dell'uomo, secondo una convinzione radicata nella tradizione agostiniano-patristica, a cui egli si rifa abbondantemente. In altri termini il vero «spirito» di Blondel si incentra, agostinianamente, su una ricerca dell'Assoluto[2]. In questo senso ci pare si possa dire che, se Blondel ha relativizzato la portata del concetto è più per un paragone di esso con l'Oggetto infinito (mai da quello adeguatamente circoscrivibile) che per una sua incapacità di attingere il reale (finito).

In ogni caso è incontestabile che quello di «totalità» sia uno dei concetti-chiave per l'intelligenza del suo pensiero. Già dalla giovanile Action egli aveva sottolineato con vigore che l'uomo è desiderio di totalità, di infinito; e nei suoi scritti successivi e fino all'ultimo Blondel avrebbe esplicitato in modo organico che la conoscenza umana non può davvero compiersi che nella totalità. Illustriamo ora questa tesi di fondo nei seguenti punti: 1)il pensiero non è scindibile dallo spirito, ma 2)lo spirito è desiderio di totalità, di Dio; dunque 3)il pensiero stesso è in qualche modo desiderio di totalità; perciò 4)l'oggetto a cui il pensiero aspira ha caratteri di totalità.

1) Per una migliore intelligenza del primo punto possiamo rifarci al problema, dibattuto nella Scolastica, della identità dell'anima con le sue potenze. In sintesi si può dire che Tommaso d'Aquino sottolineava la distinzione tra le facoltà dell'anima (in particolare l'intelletto) e la sua essenza[3], mentre pensatori come Bonaventura [4] e Duns Scoto[5] (definibili, per comodità, di ispirazione agostiniana) preferivano una soluzione che accentuasse l'unità delle potenze nell'anima, in cui sono strettamente radicate. La soluzione tomistica, insistendo sulla distinzione tra il «centro» dell'anima e le sue facoltà, istituiva una maggior distanza tra intelletto e volontà, attribuendo tra l'altro alle potenze conoscitive un'autonomia sconosciuta all'indirizzo agostiniano-francescano. Quest'ultimo infatti, raccordava le diverse attività dell'anima all'unico soggetto, per cui più che dire che è l'intelletto a pensare o la volontà a volere è corretto dire che l'anima (l'uomo) pensa e vuole attraverso l'intelletto e la volontà, e poteva così concepire una maggior interdipendenza tra conoscenza e affettività. Blondel, inserendosi nel solco agostiniano-francescano, presenta le attività del volere e del pensare come intimamente radicate nel centro stesso dello spirito. Così ne La Pensée sostiene che il pensiero e il libero arbitrio si radicano nelle profondità del nostro essere, in un terreno comune, senza poter essere separati come due «cose eterogenee» [6]. Nella stessa opera egli afferma che il vero soggetto della conoscenza intellettiva non è un intelletto, assolutizzato nella sua separatezza, ma la vivente e integrale unità dello spirito[7]. Impossibile quindi isolare il pensiero dallo spirito, ipostatizzandolo in una fittizia indipendenza: è il soggetto umano, è lo spirito che pensa.

2) E lo spirito, dicevamo, è desiderio di Dio, di totalità, benché «naturaliter inefficax» [8]. Inutile insistere su questo punto, dato che l'opera di Blondel ne è completamente permeata: basti solo considerare tutta la architettura logica de l'Action. Non a caso è stato detto, sulla base di questa insistenza blondeliana, che proprio il filosofo di Aix sia stato un importante ispiratore del movimento teologico che ha riportato in primo piano il desiderium naturale videndi Deum [9].

3) Il pensiero stesso dell'uomo quindi è fatto per la totalità, non può appagarsi che in essa. Il suo oggetto adeguato, per riprendere ancora una terminologia scolastica, non può essere niente di meno che la densa compresenza della totalità concreta del reale. Si tratta di un oggetto la cui altezza, per così dire, si estende fino all'Infinito, la cui estensione abbraccia l'insieme della realtà e la cui profondità penetra la concretezza del singolare. L'oggetto adeguato del pensiero infatti non è la diluita genericità dell'essere, la sua vuota indeterminatezza, ma l'essere nella sua infinitamente densa pienezza di realtà[10].

Che l'oggetto adeguato del pensiero sia la totalità dunque significa il pensiero non si può accontentare di una conoscenza astrattiva, universalizzante: non perché tale conoscenza sia inaffidabile o inutile, ma perché essa non ci restituisce quell'oggetto a cui il dinamismo integrale del soggetto è inevitabilmente proteso.

4) Questo desiderio, inappagato dal finito, genera un senso di inadeguatezza dell'immediato, di sproporzione tra quanto ci è dato effettivamente di conoscere e quanto siamo fatti per conoscere.

Fenomenologicamente tale percepita sproporzione induce in noi un senso di "inquietudine":

vi è in noi, sostiene Blondel, «una aspirazione che nessun bene parziale e limitato saprebbe soddisfare» [11];di qui "l'inquiétude qui est le trait spécifique de la pensée humaine», ogni dato positivo essendo più un aperitivo che un cibo saziante[12].

Questo dunque il sottofondo del discorso blondeliano, da cui emerge come la sua posizione sia meno distante dalla tradizione medioevale di quanto taluni pensino[13]. Nel senso che ciò che a Blondel preme sottolineare non è la limitatezza gnoseologica umana, il cui esito sarebbe la rinuncia all'oggettività, e una autocentricità del soggetto, ma la strutturale protensione dell'uomo, inclusa dunque la sua conoscenza, verso l'Infinito. Vediamo ora più in dettaglio come egli sia andato sviluppando la sua riflessione sulla tematica gnoseologica che qui ci interessa.


Abbiamo detto quale ci pare sia la radice della tesi blondeliana di una sproporzione tra il pensiero umano e il suo oggetto adeguato, e con ciò abbiamo indicato come il suo atteggiamento sia in consonanza con la tradizione agostiniana prima e più che non con l'antirealismo gnoseologico moderno. Il che non toglie che, per certi aspetti, la sua gnoseologia si trovi a valorizzare oggettivamente delle istanze moderne, del resto in sintonia con un altro importante fattore del suo orientamento spirituale fondamentale, ovvero una strutturale simpatia per l'uomo (moderno) e la percezione di un proprio compito missionario verso un'umanità che si è allontanata dalla Verità, almeno in parte in buona fede, per l'incapacità di quelli, che avrebbero dovuto essere i suoi servitori, di comunicarLa in modo efficace. In particolare la grande deriva antirealistica del pensiero moderno può essere vista nel suo insieme come reazione ad un malinteso ottimismo conoscitivo bassomedioevale; per il quale la verità era vista come qualcosa di immediatamente garantito dalla inevitabile apertura all'oggettività, dimenticando così il dramma soggettivo che di fatto rende irto e mai definitivamente acquisito[14] il cammino del vero. In questo senso la sua gnoseologia potrebbe essere letta come un tentativo di sintesi tra la Scolastica e quello che Bontadini chiamava lo «gnoseologismo» moderno: con la prima il filosofo di Aix ritiene che l'uomo possa giungere alla conoscenza della verità, ma concedendo al secondo che l'accesso ad essa non sia, per così dire, automatico come pensava Tommaso d'Aquino, e più ancora i suoi epigoni moderni. Per riguadagnare la tesi insomma (la accessibilità del vero come oggettivo), occorre fare i conti con l'antitesi (la non immediatezza soggettiva dell'accesso al vero), antitesi che poi viene in buona parte a reincontrare quelle istanze patristiche e segnatamente agostiniane che Blondel amava in modo del tutto particolare.

La sproporzione dell'essere al pensiero

1. l'incontenibilità dell'essere... Vediamo in primo luogo in che senso per Blondel l'oggetto adeguato del pensiero sia in qualche modo a questi sproporzionato. Anche per filosofo di Aix l'oggetto adeguato del pensiero è l'essere [15], tesi che parrebbe accostarlo alla Scolastica e a Tommaso in particolare, ma la semantizzazione blondeliana del termine essere differisce sensibilmente da quella tomistica: agli occhi di Blondel il tomismo intende l'essere come una generalità massimamente estesa, e in qualche modo vuota, astratta, mentre l'essere va piuttosto inteso come densità concreta di un singolare. è infatti un errore, afferma Blondel, pensare l'essere come diluita trascendentalità, come generica universalità, come ad una stoffa «immensa e universale, da cui ritaglieremmo tutti i vestiti (où nous taillerons tous les vêtements) di cui abbiglieremmo le realtà più diverse ed ineguali, da quella di Dio fino alla nostra e a quella del minimo grano di sabbia» [16].

Quando Tommaso parla di essere intende parlare una realtà polivoca, analogica, che è sì il concretissimo actus essendi di ogni esistente, il «ciò per cui» un dato ente è, a tale ente quindi proprio e in quanto tale incomunicabile, ma è non meno anche ciò che nei molti esistenti vi è di più comune, ed è perciò in ogni ente un aspetto intelligibile accanto ad altri, uno dei molteplici strati di intelligibilità in cui si frastaglia, quoad nos, l'ente. Questo tipo di approccio, più aderente alla molteplicità, gli consente di attribuire in senso proprio l'essere anche agli enti finiti. Blondel invece non pare riconoscere una tale polivocità, al punto che per stare a quanto egli dice occorrerebbe istituire una distinzione tra l'essere (in senso vero e proprio) e il reale, dove quest'ultimo deve essere inteso come più estensivo e abbracciante la totalità di Infinito e finito, mentre il primo può, propriamente parlando, essere detto del solo Infinito. In effetti Blondel, nella sua fondamentale opera metafisica, L'Être et les êtres, esclude che la materia, gli organismi viventi, e le stesse persone, nella loro singolarità e nella loro collettività storico-sociale[17], possano dirsi essere in senso vero e proprio. Tale nome, che implica unità, attività, perennità, assolutezza, «sostanzialità» e perfezione (Être, p. 67; cfr. anche p. 107), deve essere perciò riservato solo per l'Essere, cioè per l'Infinito[18].

2. ... debordante il pensiero. Bisogna tener presente questo concetto di essere, per capire perché per Blondel il pensiero umano, creaturalmente finito, non lo possa appieno cogliere. Abbiamo però non a caso detto appieno, dato che, ovunque Blondel parli di questo tema, egli conduce il discorso secondo la sua tipica andatura bipolare, coniugando dialetticamente la polarità della presenza dell'essere al pensiero a quella della sua assenza.

Questa dialettica era già ne L'Action del '93, in cui Blondel aveva affermato da una parte che dell'essere si dà conoscenza necessaria[19]. In questo senso ricordiamo anche le affermazioni di Blondel sul fatto che il «fenomeno» non vela completamente il reale; impossibile perciò scindere, con Kant, un puro fenomeno dalla cosa in sé (Action, 451/2).

D'altra parte egli riconosceva a Kant una ragione nel vedere come il fenomeno non sia semplicemente il reale, ma con quest'ultimo sia in dialettica[20]. L'essere infatti non è totalmente dato nel fenomeno: l'oggetto conosciuto non è pura autotrasparenza, ma si dà sempre in noi un «impasto di conoscenza subita e di conoscenza prodotta» [21]. Per cui diviene legittimo parlare di un certo primato del pensiero sull'oggettività[22]. Ed è questo il motivo della tesi blondeliana secondo cui l'essere viene raggiunto solo nell'opzione:

Occorre scegliere se l'essere, di cui portiamo in noi «la presenza necessaria» sia "un peso morto» o regni «per effetto di una libera adesione» [23].
"Reputare che si possa approdare all'essere, e che si possa legittimamente affermare una realtà qualsiasi senza aver raggiunto il termine stesso della serie che va dalla prima intuizione sensibile alla necessità di Dio e della pratica religiosa, significa pascersi di illusioni» [24].
«La conoscenza dell'essere implica la necessità dell'opzione; l'essere nella conoscenza non è prima, ma dopo la libertà di scelta» [25].

Notiamo en passant che la coerenza di quanto Blondel qui sostiene è sospesa al concepire l'essere, come dicevamo poco sopra, come pregnanza forte, come densità singolare, cioè in fondo come Infinito. è l'Infinito infatti che, in qualche modo presente in ogni conoscenza, non può essere esaurientemente posseduto, ma interpella la nostra scelta. Così si spiega come Blondel possa asserire che sottraendosi all'essere «ci si priva del possesso della realtà conosciuta, senza per questo abolire la conoscenza della realtà» [26]: «il Verbo risplende in tutti, ma non tutti l'hanno in sé» [27].

Ne L'être et les êtres, poi, da un lato egli riconosce che noi abbiamo una «certezza vitale e irrefutabile dell'essere» [28]; ma, precisa subito, l'essere come lo cogliamo è simile alla presenza («obscure mais assurée») di un amico in una notte nera, esempio peraltro impreciso, ci avverte Blondel, perché dell'essere sappiamo meno che di un amico. Da un lato, ancora, vi è una presenza onnipermeante dell'essere, nozione che soggiace ad ogni altra, che avvolge e sostiene ogni contenuto conoscitivo:[29] E tuttavia così poco possiamo dire di possedere conoscitivamente il concetto di essere che le leggi che per così dire lo regolano, i principi supremi dell'essere non vengono da noi colte negli enti finiti (in quegli enti cioè che sarebbero proporzionati alla nostra finitezza). Vale la pena sostare su questo punto, che è di grande rilevanza teoretica[30]. Le leggi supreme dell'essere, afferma Blondel, non appartengono all'ordine immanente, segnato dal divenire e dalla contraddizione:

"Le leggi dell'essere non trovano nei fatti contingenti il loro vero e proprio ambito» [31]
Per fondare questa tesi Blondel insiste sul carattere contraddittorio del finito[32]. Piuttosto il fondamento dei principi primi è nella trascendenza: «per coglierli nello loro purezza (...) bisogna trascendere l'universo»[33]. Per questo il pensiero non è né immediatamente proporzionato né necessitato a coglierli:
"Nessuna evidenza intellettuale, nemmeno quella dei principi, in sé assoluti e dotati di un valore ontologico necessario, ci si impone con una certezza spontaneamente e infallibilmente cogente; non più di quanto la nostra reale idea del Bene assoluto non agisca sulla nostra volontà, come se avessimo già la visione intuitiva della perfetta bontà, sola capace di catturare il nostro più libero amore.» [34]
Certo, se ci si pone in prospettiva astratta («da un punto di vista didattico e guardando le cose dall'alto in basso» [35]) si può anche credere i principi come «assolutamente determinati e determinanti» [36]; ma se guardiamo alla nostra concretezza, fatta di ignoranza, di pregiudizi, di abitudini più o meno confuse «il rigore imperativo e universale dei principi non appare senza una mescolanza di esitazione sulla loro genesi psicologica, sulla loro origine metafisica, sul loro valore esplicativo (...) e sulla loro portata ontologica» [37].

Per questa insufficiente evidenza immanente dei principi dell'essere (e quindi dell'essere stesso) al pensiero, occorre una opzione intellettuale. Si tratta di un'opzione speculativa, dice Blondel, e in quanto tale non cieca: non è fatta "préalablement à une vue de l'esprit», ma è piuttosto «da farsi sotto la luce che dona alla nostra decisione questo carattere arbitrale, senza cui saremmo agiti piuttosto che agenti e arbitrariamente capricciosi ma non intelligentemente liberi» [38].

La bipolarità strutturale del pensiero

La non automatica accessibilità del pensiero al vero, per tale sproporzione dell'oggetto adeguato, è strettamente connessa con il carattere per così dire bipolare che Blondel attribuisce al pensiero. Per abbracciare infatti un oggetto che lo deborda il pensiero umano deve biforcarsi, cercando di adattarvisi come meglio può. Per meglio comprendere questo decisiva tesi del pensiero blondeliano è utile un raffronto con la gnoseologia tomistica. Anche per l'Aquinate il pensiero concettuale-discorsivo non esaurisce l'ambito della conoscenza propriamente umana, e anche per lui il concetto viene in qualche modo integrato dalla connaturalità: ma a differenza che in Blondel quest'ultima non gioca un ruolo davvero paritario rispetto alla razionalità discorsiva, a cui si subordina più che affiancarsi. Il suo compito appare decisamente ausiliare e ancillare, dato che il compito primario e fondamentale viene assolto dal concetto. Benché anche in Tommaso il concetto trovi un importante fattore di limitazione nel suo essere universale, e dunque non esaustivo del reale (che è singolare e concreto), è innegabile che nel tomismo la limitatezza del concetto non ne implichi nello stesso ambito speculativo, rivelativo del reale, una integrazione con la connaturalità, come avviene invece in Blondel. Il filosofo di Aix infatti pone sullo stesso piano le due modalità conoscitive, reciprocamente richiamantesi.

1.le due modalità strutturali del pensiero. Già ne i due articoli su «Le point de départ de la recherche philosophique» [39] Blondel distingueva due fondamentali modalità conoscitive dell'uomo: la conoscenza "diretta» [40], che è «connaissance connaissante», legata al movimento della vita, nel cui flusso è inserita per anticipare e guidare quanto deve essere fatto, donde il nome di «prospection" (rivolta ai fini, all'agendum) e la conoscenza «inversa», «connaissance connue», operante una certa sospensione del flusso vitale, su cui si ripiega, donde il nome di «réflexion» (rivolta alle cause, all'actum). La prima conoscenza è sintetica, abbraccia con sguardo unitario la totalità inesauribile e inoggettivabile della vita, è volta al concreto, all'individuum ineffabile, la seconda è analitica, immobilizza e frammenta il suo oggetto (comunque materialiter identico a quello della prima forma di conoscenza), è volta all'astratto, all'ens generalissimum [41].

Similmente nella, più sistematica, opera della maturità La Pensée egli evidenzia l'irriducibile polarità che segna il pensiero.

"Deux pensées en chacune de nos pensées": il nostro pensiero è «apparentemente scisso in due» [42].
In quest'opera egli utilizza una diversa terminologia, e opera un reindirizzamento semantico (peraltro parziale e limitato) della distinzione. I termini che egli infatti adotta sono ora quelli di «noetico» e «pneumatico" [43], ovvero anche di «pensiero concreto» [44] (o "assimilatore» [45]) e «pensiero astratto» [46] (o "astrattivo» [47], o "concettuale» [48]).

Il pensiero pneumatico, ci dice Blondel, è imperniato sulla singolarità, «esprime il diverso, il molteplice (multiple), tale però solo in quanto singolare, unico, ineffabile, senza paragone (sans-pareil), quell'inedito che affermava Leibniz col suo principio dell'identità degli indiscernibili e di cui i Greci (..) dicevano che sfugge al razionale (échappe au rationnel) per il suo carattere tutto concreto (...) che fa di ogni essere individualizzato un apax legomenon» [49].

il pensiero noetico è invece legato alla «universalità intelligibile" [50], rappresenta «ciò che vi è già di unitario, di universalizzante, e per ciò stesso di razionale e di connettivo» [51]; «irriducibile (...) al puro fisico» [52], è «l'aspetto cosmico del pensiero in quanto fa dell'universo, di fatto e di diritto, un solidum quid, sub specie unius et totius.» [53]; nel platonismo designa «l'oggetto intelligibile (...) nella sua forma più adeguata, più impersonale, più «in sé» [54].

Non si può negare che, rispetto alla prima distinzione, tra connaissance directe e connaissance inverse, quella tra noétique e pneumatique risulti parecchio più oscura. è in particolare il noetico a non essere definito con sufficiente nettezza: Blondel vi mette insieme, come del resto è sua abitudine, il concetto di universalità (che nella Scolastica designa un aspetto astratto) con quello di totalità (che ha invece un contenuto concreto). Il fatto è che Blondel, come diremo tra poco, tende a sorvolare sulla dimensione propriamente universale (in senso scolastico) e a non vedere livello intermedio tra la singolarità e la totalità[55]. Quello che in ogni caso è certo è che il noetico (come anche gli altri termini, sostanzialmente corrispondenti, di pensiero astratto o concettuale), rispetto alla connaissance inverse o réflexion ha una valenza meno negativa. Se non altro perché esso costituisce una dimensione, un ingrediente della stessa realtà, laddove la réflexion in qualche modo alterava l'oggetto presentato, frammentando ciò che nella realtà era uno. Non è nemmeno chiaro fino a che punto si dia una sovrapponibilità tra noetico e pensiero astratto-concettuale da un lato e pneumatico e pensiero concreto dall'altro: Blondel utilizza la seconda coppia di termini (astratto/concreto) soprattutto allorché si tratta di operare una ricognizione storica, che mostri come la sua tesi di una strutturale bipolarità del pensiero sia ampiamente documentata nel cammino della filosofia [56]; mentre utilizza la coppia noetico/pneumatico soprattutto in prospettiva teoretica.


2. contro l'assolutizzazione di una sola polarità. Blondel, conseguentemente, ritiene che nessuna delle due modalità sia autosufficiente e possa escludere o anche solo subalternare l'altra.

Già nel Le point de départ il filosofo di Aix ammoniva contro gli opposti errori dell'intuizionismo (che in quegli anni significava fondamentalmente Bergson) e del razionalismo, la cui radice è l'assolutizzazione di una delle due polarità. L'intuizionismo infatti assolutizza la connaissance directe a scapito del concetto, mentre il razionalismo afferma la razionalità concettuale in modo esclusivo dell'apporto vitale[57].

Ne La Pensée, analogamente, egli ritiene che sarebbe dannoso affermare in modo esclusivo l'una o l'altra delle polarità conoscitive[58]. Avviene per il pensiero, suggerisce Blondel, qualcosa di simile a quanto avviene nella visione oculare: si vede correttamente solo guardando con entrambi gli occhi, con una visione binoculare che ne integri in unità il duplice apporto; chi pretendesse di anchilosare uno dei due tipi di pensiero si renderebbe come un guercio, che non è cieco, ma non vede bene, o come uno strabico[59]. Non si contano comunque, in particolare nel secondo volume de La Pensée, le enunciazioni della dialettica tra i due tipi di pensiero e l'invito a raccordarli in unità. Tuttavia Blondel pur professandosi equidistante dagli opposti eccessi di intuizionismo e vitalismo, spregiatori del concetto, da un lato e di idealismo e razionalismo dall'altro, concentra la sua critica verso l'abuso del concetto. Il che trova una spiegazione storica nella sua polemica contro la forma, per quanto temperata, di razionalismo che insidiava il Neotomismo, quale Blondel conosceva. Ed è pertanto su questo versante che noi concentreremo la nostra attenzione, pur cominciando da un breve resoconto della critica blondeliana all'esclusione del concetto.

3.a. Né sola intuizione. è soprattutto nella appendice 34 del secondo volume La Pensée che Blondel critica la pretesa di erigere l'intuizione (e un certo concetto, malinteso, di concreto) a parametro esclusivo della conoscenza del vero [60]. Paragonandola con l'intelligenza, egli ridimensiona notevolmente la portata rivelativa dell'intuizione. L'intuizione si ferma all'esterno, alla superficie, non penetra la profondità intelligibile della realtà, e perciò essa è inferiore all'intelligenza, che a tale profondità aspira[61]. è vero che la critica alla pretesa dell'intuizione non è, in quanto tale, difesa del concetto, a cui non è lecito ridurre l'intelligenza: abbiamo appena detto che tale critica si ricollega alla negazione di un «punto fermo» parziale, ma speculativamente autosufficiente, su cui si potrebbe far leva per fondare una conoscenza in qualche modo assoluta. Troviamo comunque altri accenni, sempre nel secondo volume de La Pensée (pp. 336/8) contro la tendenza all'approssimatività di coloro che ricorrono in modo maldestro all'intuizione, al vitale, a un preteso esistenziale, rifiutando un uso legittimo e coscienzioso del concetto. In tal modo, ammonisce Blondel, non si va verso la verità, ma si inclina verso un pragmatismo inaccettabile.


3.b. Né solo concetto. Nonostante ciò non corrisponda alla complessità dell'architettura logica del Blondel, procederemo ad una esposizione sistematica. Vedremo così quanto egli dice, in merito ai concetti, a)della loro origine, b) della loro intrinseca qualità, b) della loro portata conoscitiva.


a. L'origine dei concetti. Per origine non intendiamo qui parlare della derivazione dei concetti dal dato sensibile, che Blondel non mette in discussione, sia pure ammettendo anche un'origine soprasensibile di certi contenuti conoscitivi (meglio sarebbe dire di «certi contenenti» [62]). A parte questo non vediamo in Blondel differenze significative (almeno nella prospettiva che qui ci interessa) rispetto a Tommaso in ordine alla origine sensibile dei concetti determinati. Quello che piuttosto ci interessa è la modalità con cui i concetti sono ricavati dal sensibile: per l'Aquinate l'astrazione è un fatto per lo più spontaneo, automatico. Almeno per quanto riguarda certi concetti basilari non si sceglie di astrarre, non si può pilotare volontariamente il processo di astrazione, che invece si attua in noi come qualcosa di immediato e di necessario.

Blondel, pur non negando, in certi passaggi, una certa naturalità del processo astrattivo, tende a porre l'accento sul suo carattere volontario, consapevole, e in qualche modo artificioso. è lecito vedere una analogia con quanto poco sopra detto riguardo alla sensazione: come per il tomismo il soggetto umano è prevalentemente passivo, sia nella sensazione (che è atto non dell'anima, ma del composto corporeo-spirituale, in una spalancata presa d'atto del mondo materiale) sia nell'astrazione (che avviene, in modo immediato e necessario), così per Blondel, nella linea di Agostino, l'uomo, in virtù della sua eccedenza rispetto al livello materiale, esercita un attivo potere di discernimento, tanto nella sensazione, quanto, a maggior ragione, nell'astrazione dei concetti. Per rifarci a un problema dibattutto nella scolastica, quello dell'intelletto come potenza attiva, possiamo ricordare come per Tommaso l'intelletto non sia potenza attiva, ma passiva[63]. Tale tesi, conforme alla più generale visione di uno spalancamento del soggetto verso l'oggettività sensibile, si discosta dall'indirizzo della tradizione agostiniana, ripresa da autori francescani. Duns Scoto in particolare sottolineò con forza il carattere non meramente passivo dell'intelletto[64].

è in qualche modo riprendendo questa linea che Blondel accentua il carattere di non totale passività del pensiero:

il soggetto pensante recepisce il pensato a suo modo, non come la cera riceve lo stampino: Non si può misconoscere «l'idée d'une initiative déjà préexistante et spécifique» da parte dello spirito, e niente di più falso del detto di Locke che Dio potrebbe far pensare la materia: «nul receptivité sans activité» [65]. Lo spirito non si lascia passivamente modificare, «façonner» «comme une glaise docile à toutes les moules» [66].
Ora questa dimensione di attività, di spontaneità che caratterizza il pensiero, come strettamente emanante dallo spirito (si veda quanto abbiamo detto sull'unità delle facoltà con l'essenza dell'anima), si esplica appunto in una astrazione che non è passiva registrazione di un dato, di un grano di intelligibilità presente in quanto tale nella realtà oggettiva, ma iniziativa in qualche modo autonoma e originale del soggetto. I dati sensibili sono certo l'occasione, ma l'occasione di «attività e d'iniziativa originale dello spirito» [67]. Se lo spirito conosce l'esterno, il materiale, è perché scende più in profondità dentro di sé[68].

Perciò Blondel può sostenere che i concetti per un lato sono dati, in quanto rispondono ad una esigenza naturale del pensiero; per un altro verso sono costruiti, "grazie a questa arte di costruire dei segni"; semplificano una realtà in sé complessa (e perciò se ne possono dire in qualche modo alteranti); ne segue inoltre che essi sono inadeguati: è illusorio pensare che essi rispecchino l'armatura intelligibile del reale[69]. Blondel distingue bensì un'astrazione di primo grado, più aderente al dato, da una di secondo grado, più lontana dal concreto, ma anche nel caso della prima avverte che essa contiene una componente di invenzione soggettiva[70]. Secondo il filosofo di Aix, quindi, il pensiero svolge un ruolo in qualche modo creativo: egli lo paragone a un architetto che, raccolto nel suo studio fa i suoi progetti, e inventa degli strumenti per dominare la natura; il frutto dell'attività astrattiva è in tale linea un doppione (doublet), «artificialmente sostituito alla presenza reale di cui il pensiero concreto conserva il privilegio» [71].

Il processo astrattivo dunque è essenzialmente guidato dall'iniziativa del soggetto [72].


[Continua in un prossimo articolo]


note


[1] «Provocazioni sul tema della verità nel tomismo», Divus Thomas, n.10, 1/1995, a. 98°, pp. 9/26.

[2] è ciò del resto che non mancarono di riconoscergli anche avversari tutt'altro che teneri come Garrigou-Lagrange e Maritain.

[3] STh, I, q.79, a. 1; cfr. Vanni Rovighi S., Uomo e natura. Appunti per una antropologia filosofica, Vita e pensiero, Milano 1980, pp. 203/5 e, della medesima autrice, San Bonaventura, Vita e pensiero,Milano 1974, pp. 73/5.

[4] II Sent, d.24, p.1, a.2, q.1.

[5] Oxon, 2, d.16, n.15, n.16; Oxon 1, d.7, n.21.

[6] La Pensée, vol. 2°, PUF, Paris 19542 (Pen2), 45: «On aperçoit ici à quelle profondeur descendent et s'anastomosent les racines communes de l'intelligence et de la liberté (...). Trop volentiers on s'imagine que la pensée et le libre arbitre sont choses hétérogèses, surviennent du dehors, comme des accidents ou des dons jetés sur un être déjà constitué substantiellement."

[7] Commentando la formula intellectus fit quodammodo omnia Blondel avverte che «ce n'est pas l'intellect à lui seul qui devient effectivement toutes choses; c'est l'esprit qui, grâce à la multiplicité de ses fonctions, participe de moins en moins inadéquatement à la réalité des êtres d'une façon qui n'est point uniquement intellectuelle.»(Pen2, 381)

[8] Pen2, 369.

[9] Ci permettiamo in proposito di rimandare al nostro De Lubac. Cristianesimo e modernità, ESD Bologna 1994 (tra l'altro pp. 41 sgg.).

[10] Come si vede questa prospettiva differisce da quella tomistica, la quale pur affermando, come richiesto dalla fede cattolica, un ultimo orientamento del pensiero alla pienezza infinita dell'Essere, attribuisce l'intelletto naturale un oggetto proporzionato alla sua finitudine.

[11] «Une aspiration qu'aucun bien partiel et borné ne saurait satisfaire», La Pensée, vol. 1° Alcan, Paris 1934 (Pen1), 98.

[12] Ibidem . A differenza dell'animale, sostiene ancora il filosofo di Aix, l'uomo ha sempre "l'inquietudine, la nostalgia di ciò che non è, di ciò che dovrebbe essere" («L'inquiétude, la nostalgie de ce qui n'est pas, de ce qui devrait être») (Pen1, 105). Il pensiero assimilatore e globale porta in sé «la presenza implicita del tutto», ed «esprime una aspirazione indefinita» o meglio «infinita», al di sopra della durata, peraltro necessaria al suo sviluppo, essa è protesa, slanciata verso un Termine «nel quale solo trova pace (seul apaisant), e verso cui tende l'instabilità dell'universo e l'inquietudine del pensiero» (Pen2, 35). "Anteriormente a qualsiasi pregiudizio speculativo, ciò che ci è dato, non è né il fisso né il mobile; né il relativo, né l'assoluto; ma ciò che Malebranche chiamava 'l'inquietudine', stato di equilibrio perpetuamente instabile o di intima sproporzione, tale che ogni sforzo tentato per soddisfare delle esigenze antecedenti che si manifestano spontaneamente al pensiero rivela esigenze ulteriori che si impongono moralmente all'azione.»(PD2, 234)

[13] Leggendo le opere principali di Blondel non abbiamo incontrato molti riferimenti ad autori spiritualisti, mentre abbondanti ve ne sono alla Scrittura e alla Patristica, in particolare a S.Agostino. Ci sembra significativa in proposito la ascendenza agostiniana dello stesso termine inquietudine («inquietum est cor nostrum»).

[14] Chiariamo che per «negare una conoscenza definitiva della verità» intendiamo solo negare che senza il concorso della libertà (che va esercitata di momento in momento, senza tregua) il soggetto concreto possa vivere nella verità.

[15] «Le pouvoir de donner un sens au petit mot est et de le poser d'abord comme l'acte vital de l'esprit se présente ... comme la raison elle-même qui, d'émblée et tout primitivement, va directement au réel, à l'être comme à son objet propre.»(Être , 35)

[16] Être, 41. In tale idea, erroneamente creduta unitaria, si trovano mescolati «aspetti sensibili, fatti psicologici, concetti astratti, estrapolazioni metafisiche o anche talora sogni pseudo-mistici» (ibidem ).

[17] Rispettivamente Être, 75/84, 84/94, 96/107, 108/31.

[18] Metafisicamente questa tesi di Blondel si connette alla sua negazione che il nulla abbia qualsiasi specie di esistenza. Egli sostiene ad esempio che l'idea del nulla è un nulla di idea (Être, 44), e «c'est une pseudo-idée que celle du néant» (Être, 44). Impossibile pensare davvero il nulla, e dirlo senza contraddirsi (Être , 44). Per cui diviene quantomeno problematico pensare una qualche mescolanza tra essere e nulla, ciò che invece permetteva al tomismo di pensare la contingenza dell'ente finito, senza negargli né un essere almeno relativamente autonomo né il suo carattere di fragilità creaturale, che non possiede appieno l'essere. Cfr. su questo A.Bausola, «Aspetti dell'ontologia blondeliana», in Indagini di storia della filosofia, ed Vita e Pensiero, Milano 1969, p. 39/42, e Leclerc M., L'union substantielle. I. Blondel et Leibniz , Culture et vérité, Namur 1991 (Leclerc), p.329.

[19] L'Action, Alcan, Paris 18931(Ac), 428/30. «c'è un'affermazione dell'essere anteriore e intrinseca a qualsiasi tentativo di negazione anche globale (...). (...) la natura delle cose ci appare come una realtà oggettiva, perché si impone a noi con l'unità del determinismo, e perché ci impone una libera opzione» (Ac, 431); «in un certo senso la verità dell'essere ci si impone totalmente dall'esterno; il suo scettro è di ferro» (Ac, 430)

[20] Nel senso che non è il singolo fenomeno, sensibile o scientifico, il singolo anello, ad essere pienamente consistente, ma lo è la catena intera (Ac, 453/4): l'essere non è dietro i fenomeni (come un altro termine della serie), ma dentro il fenomeno nella totalità dei fenomeni.

[21] Ac, 451. Analogamente ne La Pensée Blondel riconosce che gli oggetti esistono realmente, come qualcosa di consistente, e tuttavia il pensiero in qualche modo li arricchisce, non si limita a registrarli passivamente (Pen1, pp. 134 sgg.).

[22] Pen1, 137.

[23] Ac, 429.

[24] Ac, 428.

[25] «La connaissance de l'être implique la nécessité de l'option; l'être dans la connaissance n'est pas avant, mais après la liberté du choix» (Ac, 436).

[26] Ac, 437.

[27] Ac, 429.

[28] Être, 359.

[29] «Cette certitude primitive et constante, si peu remarquée et si négligée qu'elle soit, explique par un fait de conscience universel la présence -pour ainsi dire intemporelle- d'une notion sous-jacente à toutes les autres, une idée de l'être sans laquelle rien de ce que nous percevons ou faisons ne saurait subsister pour nous.»(Être, 40).

[30] Come ben vide il padre Garrigou-Lagrange, che su di esso, notiamolo en passant, basò molto della sua battaglia. Cfr. ad esempio il suo importante articolo «La Théologie nouvelle où va-t-elle?», Ang 1946 (23), fasc.3/4, pp.126/45, e «Nécessité de revenir à la definition traditionelle de la vérité», Ang 1948, pp.185/98.

[31] Être, 416: "les lois de l'être ne trouvent pas dans les faits contingents leur domaine véritable»".

[32] Solo la categoria della sostanza «esclude assolutamente il contraddittorio» (Être, 416), e il principio del terzo escluso non può essere considerato applicabile rigorosamente «dans tout le domaine empirique, et pour tout ce qui ne concerne pas l'être métaphysiquement considéré comme supérier au devenir», ciò che supporrebbe infatti "une sorte d'extrapolation analogique» che assolutizza del relativo (Être, 217). Per ciò che concerne le categorie accidentali egli ne esemplifica la contraddittorietà e la non-assolutezza sostenendo che un certo tipo di caldo non può essere detto assolutamente caldo: lo sarà solo per un tipo umano abituato a temperature fredde, non per chi vive da sempre ai tropici (per cui il medesimo clima appare a un africano freddo e a un norvegese caldo); o, riguardo al terzo escluso egli lo ritiene valido al più per l'attuale, non per il possibile, sostenendo l'inesattezza dell'alternativa: «Pietro può essere solo o seduto o in piedi"; Pietro infatti può essere in molti altri modi: «inginocchiato, accucciato, coricato, appeso» (Être, 418).

Ci sembra che Blondel creda di dover negare non solo la certezza soggettiva dei principi supremi, ma la loro stessa intrinseca e oggettiva applicabilità all'immanente. Sarebbe più corretto, ci sembra, dire che il finito sia mescolanza di contraddizione e di non-contraddizione, tensione polare di luce e ombra, perfezione e imperfezione.

[33] «il faut trascender l'univers», Être, 416.

[34] Être, 415.

[35] Être, 418.

[36] Être, 418.

[37] Être, 419.

[38] Être, 420. Il filosofo di Aix la definisce, ancora, come «une élection spécifiquement intellectuelle, une confrontation hésitante qui, dominée par la valeur ontologique et les exigences absolues des principes premiers, requiert une adhésion de la raison avant de se traduire en consentement ou en rébellion du vouloir», Ibidem. La possibilità di tale opzione intellettuale nasce dalla possibilità di isolare delle verità (che pure si impongono): «C'est ce concours de vérités qu'on reconnaît bien à l'état isolé, mais qu'on omet trop souvent de composer ensemble et de rendre ainsi vraiment explicatives et efficaces» (Être, 420).

[39] APhC, 151 (1905/6), 337/60; 152 (1906), 225/49 (PD1 e PD2).

[40] PD1, 340.

[41] PD1, 345. I due tipi di conoscenza, pur avendo lo stesso oggetto materiale, sono cronologicamente non sovrapponibili: nel senso che non è possibile considerare riflessivamente una conoscenza «diretta» mentre questa è in atto; allorché infatti questa si troverà ad essere oggettivata dall'analisi concettuale non sarà più la stessa conoscenza che ha effettivamente guidato l'azione, ma qualcos'altro, un che di artificiale: «Quand je crois étudier ce fait tel qu'il est (ossia un'azione guidata dalla connaissance directe), en l'isolant, ce n'est plus lui que j'étudie, mais un autre fait que je constitue artificiellement; je n'analyse plus qu'une action abstraite des conditions précises et des fins véritables auxquelles cette action même devait d'être» (PD1, 340). Blondel parla di artificialità a proposito di questa sovrapposizione tra le due conoscenze, il che non ci pare in contraddizione con quanto più oltre dirà, definendo la connaissance inverse, in antitesi al Bergson, qualcosa di naturale.

La «connaissance directe», la prospection, non può infatti «essere immobilizzata sotto lo sguardo interiore dell'analisi senza essere almeno paralizzata dall'attenzione che la fissa e come uccisa dall'analisi che la decompone» (PD1, 344). Di tale conoscenza «diretta» Blondel dice poi che essa è «au service de nos desseins réels et actuels, liée à notre vie totale, tournée vers le futur qu'elle anticipe»( PD1, 341), e, ciò che è più importante, assicura che essa basta a risolvere il problema centrale della vita, quello del suo significato: «è in essa e tramite essa che si risolve il problema supremo della vita, di quella vita che non ripassa due volte per il medesimo sentiero, e che si fissa da ultimo una volta per tutte senza possibile ripresa» (PD1, 341); perciò a tale tipo di conoscenza si possono fermare i più («la plupart des hommes»), senza che alcuno possa dispensarsene («celle ... dont aucun, pour vivre, ne se passe jamais», ibidem).

[42] Pen2, 13. Anche storicamente il cammino della filosofia documenta tale dualità insopprimibile: "Astrazione e intuizione, géométrie e finesse, analisi et sintesi, poesia pura e senso banale (sens banal), sotto mille nomi, due spinte sembrano trascinare gli spiriti verso delle rive contrarie."

[43] Cfr. Pen1, 17, Pen1, 272, Être, 425

[44] Pen2, 18/9

[45] Pen2, 35

[46] Pen2, 36

[47] Pen2, 34

[48] Pen2, 17

[49] Pen1, 18. Esso è, ancora, «ce qui, en un être singulier, en un point spécifié et réagissant de façon qualitative, aspire l'universel, puis l'assimile et l'expire ensuite: secret échange qui introduit perpétuellement dans le monde du nouveau, qui dans le noétique en quelque sorte étalé et totalisé, constitue partout des intériorités, des singuliers», Pen1, 274. Abbiamo lasciato il testo originale, in quanto ci pare che tale testo sia difficilmente traducibile senza perdere molto della sua efficacia espressiva. è anche «l'aspetto cosmico del pensiero in quanto introduce ovunque della diversità, della singolarità, dei vincula parziali, dei centri di reazione, delle prospettive differenziate e concorrenti», Pen1, 275.

[50] Cfr. Leclerc, 231.

[51] Pen1, 17.

[52] Pen1, 272.

[53] Pen1, 275.

[54] Pen1, 272.

[55] Tra i molti passi che potremmo citare, si veda ad esempio Pen2, 319: le idee non sono «entità concrete», e non esiste quella «universalità astratta» che si chiama «generalità": è artificioso sostituire «des particularités génériques à l'universel concret".

[56] Come fa in particolare nel secondo volume de La Pensée , IV p., cap. 1 («L'apparent dyptique de la pensée»), pp. 13 sgg.

[57] Dal primo lo separa, come dichiara Blondel, la sua fiducia nella naturalità e nella positività del concetto, della riflessione; per lui la conoscenza analitico-concettuale è necessaria e valida, purché non la si pretenda esclusiva. Sbaglia perciò il Bergson a privare di ogni valore rivelativo la conoscenza concettuale: «il ne sert à rien de déprécier la réflexion, afin de remédier aux doctrines qui l'exaltent trop exclusivement», PD1 , 356. Sulla naturalità del concetto cfr. PD2, 243: «Il faut nous passer et nous passons, effectivement, inévitablement, par la réflexion analytique, et elle n'est pas moins naturelle que la prospection synthétique". Il pensiero non può essere ridotto ad «artificio, al servizio delle parzialità dell'azione» (ibidem). E, ancora, Blondel ammonisce che la vera azione non è senza pensiero, PD1, 356. La verità è che il concetto fornisce un apporto insostituibile alla vita, e che esso è «una condizione essenziale dello sviluppo dell'essere e della verità in noi», PD2, 241. Inutile e pernicioso sarebbe perciò disprezzare la dimensione analitico-concettuale: si finirebbe coll'inficiare la stessa portata realistica della conoscenza in quanto tale: «Si l'on tentait de se passer de la pensée discursive pour connaître le réel, on aboutirait, qu'on le veuille ou non, à l'irréalité de la pensée et à l'inintelligibilité de l'être" (PD2, 244). Sul fatto poi che non vi sia una subordinazione a senso unico della riflessione nei confronti dell'azione, Blondel chiarisce che «la riflessione è un mezzo della vita solo se è al contempo un fine intellettuale» (PD2, 244).

Dal secondo lo allontana l'esclusiva affermazione del concetto, la pretesa autosufficienza della riflessione concettuale, operata dalla «filosofia dell'idea» e dalla «filosofia critica": in tal modo non si riuscirebbe più a ricostruire la realtà nella sua unitarietà e nella sua fluente continuità, che è invece la modalità originaria con cui essa ci si dà, PD1, 346/52. Idealismo, razionalismo e criticismo, per inseguire qualcosa di secondario, si vedono costretti a rinunciare al dato primario e fondante, e ciò, per Blondel squalifica senza appello tali impostazioni. PD1, 348: l'esempio che egli porta è quello delle molteplici analisi che si possono condurre del gesto di prendere un foglio carta. Un tale semplice gesto può essere scomposto e fatto oggetto di ricerca concettuale da parte di chimica, biologia, fisica, psicologia: ma tutte tali specifiche indagini suppongono e non possono pretendere di eliminare il dato originale, che appartiene all'esperienza concreta, alla connaissance connaissante, che contiene un di più, inesauribile da quelle. Tutto il resto quindi deve essere in funzione della prospection, per cui «une philosophie qui ne rend pas compte d'une telle connaissance e de tels acts, ne fait que s'attaquer à l'ombre projetée et éparpillée, non au corps même de l'être, dans sa solidité et son intégrité." (PD1, 348). Perciò, ancora, la filosofia razionalista è «incapable de rendre compte de l'action qu'elle presuppose toujours; incapable de conferer aux données de la perception ou de la science la solidité (..) qui en ferait des êtres vrais» (PD1 , 349/50).

[58] Se si puntasse sul "solo noetismo si sarebbe presto o tardi condotti a estrapolare (...) l'elemento spirituale» (Pen2, 331). «se si pretendesse di ricondurre tutto al solo pneumatismo, si sfocerebbe presto o tardi in una anomia intellettuale e a una lotta contro ogni valore assoluto (contre tout dogmatisme) della ragione» (Pen2, 331/2).

[59] Pen2, 360/1.

[60] Pen2, pp. 314 sgg.

[61] «intus-legere, lire au dedans et à fond, en comprenant et en parlant, en qualque manière, le secret enfin éclairé, ce n'est pas la même chose que in-tueri, ce qui signifie seulement un regard global porté même du dehors et tombant sur un objet devant lequel il suffit peut-être de passer, (....) sans scruter toutes ses profondeurs intelligibles."Pen2, 314.

[62] Abbiamo ad esempio sopra visto, parlando dell'essere, come Blondel ritenga fondati nella trascendenza, e in qualche modo a priori, i principi supremi dell'essere (cfr. ...). Nel tredicesimo «excursus» poi egli parla del concetto supremo, che «maîtrise, limite et hierarchise tous les autres» (Être, 434), un concetto «dominateur et servant de terme suprême de reférénce pour tous les autres (...) celui de cette incommensurabilité de l'être et des êtres et de la déficience naturellement incurable qui stigmatise les créatures»(Être, 434). I concetti infatti non hanno tutti lo stesso valore, ma prendono valore dal loro grado di partecipazione a questo concetto supremo, divenendo perciò punti di passaggio verso l'Assoluto, e non pretendendosi punti di arrivo: «Ainsi tous nos concepts prennent-ils une valeur de vérité et une portée ontologique dans la mésure même où nous cherchons en eux, non des termes d'arrivée, mais des degrés et des analogies nous conduisant vers l'absolue Vérité»(Être, 434). è chiaro che questa idea di incommensurabilità, di infinito, non può essere ricavata dal sensibile.

Ancora egli sostiene che l'idea di Dio è condizione del nostro pensare finito: «nous ne pouvons nous tenir à aucune de nos pensées, parce que leur rôle est de nous rattacher au trascendant et parce que nous n'avons conscience des choses inférieurs, partielles, immanentes, que par la présence toujours enveloppée (..) d'une réalité et d'une verité supérieure à toute donnée positive» (Pen2, 52).

[63] Cfr. ISTh, 79, 2. L'intelletto è passivo, spiega Tommaso non nel senso che patisca (perdendo qualcosa), ma in quanto «in potentia ad aliquid, recipit illud ad quod erat in potentia, absque hoc quod aliquid abiiciatur"; e cio perché «omnis intellectus creatus, per hoc ipsum quod est, non est actus omnium intelligibilium, sed comparatur ad ipsa intelligibilia sicut potentia ad actum» (resp.). Anche per Tommaso, come per Aristotele, l'intelletto è «sicut tabula rasa": in principio sumus intelligentes solum in potentia. Cfr. anche 3Sent, d.14, a.1; III DeAnima , lect. 7, 9.

[64] Dire che l'intelletto è passivo «videtur inconveniens, quia vilificat valde naturam animae. Nullam enim perfectionem videtur phantasma posse causare in intellectu excedentem nobilitatem eius, quia effectus non excedit suam causam, sed deficit ab ea"; «ergo nihil causatur praecise a phantasmate in intellectu, sicut ponit ista opinio. Omnis enim intellectio, aut est perfectior phantasmate, aut nulla erit in homine." Oxon ., l.I, d.3, 3p., qq. 2a e 3a, , n.429 (editio Vaticana, Roma 1954, p.261).

"Oportet ponere aliquam causam activam, et aliquo modo in nobis, alioquin non esset in nostra potestate intelligere cum vellemus»(Ibi, §20; n. 486; ed. cit., p. 289). Certo il fenomeno intellettivo, se non è causato tutto dall'oggetto, non è nemmeno causato totalmente dal soggetto: «instius intellectionis non est tota causa activa obiectum» [n. 488] «nec tota causa intellectionis est anima intellectiva» [n. 489]. Ma il Doctor Subtilis non ha dubbi sul fatto che il primato, nella causalità dell'intellezione, debba spettare all'anima: «videtur quod pars intellectiva habeat principaliorem causalitatem respectu intellectionum modo nobis naturaliter convenientium»( Ibi, q.3; 2; n. 559). «Dicendum animam praeditam esse activa virtute respectu intellectionis, nec obiectum, aut vicarium ipsius phantasma esse omnino causam illius. Etenim intellectio aliqua in nobis est nova, ut quilibet in se experitur, estque forma abosluta, cum sit terminus actionis» (Quodlib., q.15, n.2).

[65] La prima citazione, Pen1, 225/6, le ultime Pen1, 227.

[66] Pen2, 381. "S'il [lo spirito] devient toutes les choses, c'est moins par une plasticité inerte que par son activité toujours en éveil, capable de s'intéresser à tout, et selon la belle expression d'Aristote, de maîtriser toutes choses, en se mettant à l'école de la nature pour mieux la dominer".

[67] Pen2, 381

[68] Pen2, 381. E ancora egli osserva: «Nous ne pensons le monde qu'en pensant autre chose que lui. Pour le connaître et nous connaître avec lui, nous le dépassons, nous le refaisons (...). Nous ne sommes pas contenus dans ce qui est réalisé, nous le contenons" (Pen1, 105); non ci assoggettiamo ai dati naturali che «pour reprendre l'offensive, pour nous les soumettre et pour réaliser des fins idéales." (Pen1, 106). «Il minimo pensiero eccede la natura intera e si installa in ciò che non è ancora» (Pen1, 106).

[69] I «segni intenzionali» dando corpo "à l'effort de la pensée désireuse de saisir un aspect précis et de se saisir elle-même, extraient de la complexité réelle une perception simplifiée et définie dont on doit dire qu'elle est à la fois donnée et construite, inadéquate et supérieure à l'experience qui en est l'occasion. D'où résulte l'immense avantage de dominer les servitudes empiriques, de pouvoir manier intellectuellement les notions spontanément élaborées, de prendre conscience de l'originale puissance qui permet à l'esprit de chercher dans les choses plus que les choses, de trouver en lui-même plus que sa propre industrie. Dès lors, nous nous expliquons tout le bien qu'on a dit de l'abstraction, des concepts qu'elle suscite par une sorte d'induction immédiate, grâce à cet art de contruire des signes, des modèles, des types essentiels qui, indéfiniment réitérables, comme l'est l'opération de la pensée dont ils sont issus, prennent une valeur universelle, idéale, comme si ces ideae factae (pour reprendre une expression cartésienne) servaient d'armature en même temps à la nature, à notre pensée, au dessein créateur de l'intelligence et de la puissance divine, en devenant ainsi le secret et commun dénominateur du cosmos, de la raison humaine et de la verité absolue." (Pen2, 309/10).

[70] La prima è riferita direttamente al dato sensibile, su cui si possono fare «dei controlli diretti, delle verificazioni di fatto»(Pen2, 310). La seconda procede non più da dati reali o controllabili, ma da «extraits déjà élaborés» (Pen2, 310); contiene una dose inevitabile di falsità, e il rischio di una «fiducia temeraria» di tipo ideologico (Pen2, 311). Ma anche la prima non è interamente fondata in una aderenza totale all'oggettivo, essa infatti «renferme une part fictive par un passage invérifié à une limite supposée mais non atteinte» (Pen2, 310).

[71] Pen2, 20/1.

[72] Può essere interessante vedere come, più in dettaglio, Blondel concepisca tale processo, che porta alla elaborazione dei concetti. All'origine di esso sta la già ricordata inquietudine, il desiderio di Infinito che spinge l'uomo, e il pensiero dell'uomo, a oltrepassare il finito (Pen1, 98). Per questo Blondel può dire che il pensiero è al contempo in questo mondo (à ce monde), ma non di questo mondo (Pen1, 99). Quest'ultimo in effetti si frappone come ostacolo, e proprio in ciò, che è per il soggetto cosciente un patire, si crea la necessità di reagire, forgiandosi dei segni; con cui, di fronte alla altrimenti dominante assenza di senso del finito sensibile, lo spirito tenta di sfondarne l'opacità per crearsi un accesso verso l'Infinito. Il segno (ovvero il concetto) ha perciò un valore ausiliario, strumentale (non nel senso tomistico, comunque, dato che Blondel lo definisce anche intenzionale): è condizione, non causa del pensiero, che ne usa in qualche modo dominandolo, sapendo insomma che esso è semplicemente un vicario, un sostituto provvisorio, un "artificio» . «Ecco perché l'invenzione di un tale artificio sembra essere quanto di più naturale al tempo stesso che rivelatore» (Pen1, 102). Nella stessa pagina egli usa anche l'espressione di «symbole fictif, qui constitue quelque chose d'un, de simplifié, de maniable, de répétable indéfiniment". E in quella successiva parla del segno (concettuale) come di un succédané inadéquat», «un premier outil de l'esprit» e «un instrument pour défricher le monde sur la voie des inventions conquérantes de l'expérience et de la science» (Pen1, 102).è vero infatti che "L'institution intentionnelle d'un signe expressif, (..) apparaît donc la condition décisive de toute réflexion (..) on ne pense pas sans signe, disait justement Aristote» (Pen1, 101). Ma il pensiero cerca, oltre i segni rappresentativi "une réalité présente et cachée» (Pen1, 101). I segni non ci soddisfano fino in fondo. Di più, sono qualcosa di «conventionnel» (Pen1, 101).

Significativo è che per Blondel il coglimento del concetto non sia una positiva e, diciamo così, pacifica automanifestazione degli oggetti, che rivelano allo sguardo dello spirito la loro intelligibilità, ma sia contrassegnato da una negatività, dalla non corrispondenza dell'oggettivo immediato con la profonda aspirazione alla totalità che anima il soggetto, il quale deve come aprirsi a fatica un varco, senza peraltro poter attingere davvero ciò che costituisce il Termine appagante del suo anelito.